Shining - le emozioni nello smart working

Lo smart working è stata una scelta obbligata nella fase 1 della pandemia da Coronavirus e per le caratteristiche particolari che ha assunto in relazione al particolare momento storico in molti casi ha portato con sé una generale diminuzione del benessere psicologico. Con l'inizio della Fase 2 in molti casi lo smartworking continua, e il disagio prende nuove forme. 

È perciò indispensabile che le organizzazioni prendano in considerazione la situazione psicologica dei dipendenti: le emozioni legate allo smart working possono incidere profondamente sulla produttività, sulla motivazione e sull’engagement dei lavoratori.

Questo era valido nella Fase 1 e lo è ancora di più nella Fase 2, che in questo momento si configura come la nostra nuova normalità.

Smart working tra aspettative e realtà

La prima difficoltà in assoluto è legata proprio alla mancanza di preparazione a questa nuova modalità di lavoro, che, in realtà, non può essere definita smart working in senso proprio.

Nella Fase 1 si è adottato quello che potremmo definire “smartworking d’urgenza” per fare fronte a una situazione eccezionale, mai verificatasi prima.

È così che dopo il lockdown il 56% delle aziende ha introdotto lo smart working per la prima volta; il 79% dei lavoratori che si sono trovati a lavorare da casa non l’aveva mai fatto prima (Indagine Infojobs).

Tutto questo ha avuto un risvolto positivo: la necessità ha spinto a fare smart working anche le numerose aziende che lo ritenevano impossibile o inadatto alla propria realtà.

Il rovescio della medaglia è che le persone, dipendenti e dirigenti, si sono trovate a dover gestire un cambiamento brusco e rivoluzionario, adottando una nuova modalità di lavoro alla quale non erano preparati, né dal punto di vista tecnico, né dal punto di vista psicologico. 

Ma cambiare le proprie abitudini non è facile. Nella nostra vita quotidiana fare sempre le stesse cose ci permette di sviluppare automatismi che sono percorsi mentali già tracciati e richiedono meno fatica al nostro cervello. La resistenza al cambiamento è legata proprio alla fatica che questo comporta. 

Lo “smart working d’urgenza” ha portato con sé fin dall’inizio una grande fatica: per i dipendenti è stato faticoso adottare le nuove abitudini imposte dallo smart working e dal lockdown, per la dirigenza è stato difficile ripensare il modo di intendere il lavoro, e per questo si sono mantenute nello smart working delle logiche del lavoro in ufficio, come il controllo della presenza, le ansie relative alla produttività, le comunicazioni continue.

È come se in questo smart working avessimo cambiato contenitore, passando dall’ufficio alla casa, mantenendo però i vecchi contenuti.

Se lo smart working è una modalità di lavoro basata sulla gestione autonoma di tempi e modi di lavoro in relazione a un obiettivo definito, difficile applicarne il nome a questo lavoro da casa obbligato, gestito in molti casi come un semplice lavoro a distanza (telelavoro), con una organizzazione (o una mancata organizzazione) che paradossalmente non garantisce spazi di autonomia al lavoratore, vincolandolo a logiche del lavoro in presenza, come ad esempio la reperibilità durante l’orario di lavoro.  

La distanza tra le aspettative relative allo smart working, molto ambito in particolare dalle donne con figli piccoli, e questo smart working al tempo del Coronavirus è notevole. 

Ci si immaginava lo smart working come la possibilità di lavorare in autonomia, secondo spazi, tempi e modi propri, con libertà e leggerezza. Ci si pensava da sole (o da soli), in una casa vuota e ordinata mentre i figli erano a scuola, e poi, al loro ritorno, presenti e disponibili per godere della loro compagnia. 

La realtà è stata molto diversa: a partire dagli ostacoli concreti che fin dall’inizio hanno complicato la vita degli smart worker da Coronavirus.

Una prima difficoltà è stata legata alla “fatica digitale”, cioè alla gestione degli eventuali gap tecnologici: le case non erano attrezzate per trasformarsi in uffici. Secondo una recente indagine Istat, con la quarantena il traffico dati è aumentato dal 20 al 50%, ma la maggior parte degli italiani non ha accesso a una connessione a banda larga e un terzo delle famiglie non ha in casa né un computer, né un tablet. Tenuto conto che i device servivano anche a bambini e ragazzi per seguire le lezioni online, la scarsa dotazione tecnologica è stato un tema dolente per numerosi smart worker da Covid 19.

Sempre in tema di difficoltà concrete, va menzionato il fatto che chi non vive solo si trova a dover dividere gli spazi vitali con il resto della famiglia.

Mentre in condizioni normali lo smart worker ha il tempo di pianificare una postazione domestica e spesso può contare su di un ambiente relativamente tranquillo, nell'emergenza del Covid molti si trovano a lavorare in case condivise con partner e figli con esigenze e complicazioni diverse a seconda dell'età.

I bambini più piccoli richiedono cure e attenzioni continue, i figli in età scolare devono essere seguiti nei compiti e nelle videolezioni, i più grandi spesso mal sopportano la convivenza forzata con la famiglia.

In più, mancano del tutto i tempi di “decompressione” garantiti, prima del lockdown, dagli spostamenti tra casa e lavoro, che consentivano di passare da un’attività all’altra con gradualità.

Chi vive solo e non ha problemi di condivisione di spazio si trova invece spesso a soffrire della totale mancanza di contatti con gli altri, con le difficoltà emotive che ne possono derivare.

Il risultato, in ogni caso, è che concentrarsi è difficile e si finisce per lavorare più a lungo, accumulando fatica e frustrazione.

Un'indagine condotta negli Stati Uniti dalla società NordVPN mostra come la giornata lavorativa si sia allungata di quasi il 40%. Le cose sembrano andare allo stesso modo anche da noi: mantenere separati lavoro e vita privata è difficile, gli orari di lavoro si dilatano, mentre, con l'idea che si debba essere sempre disponibili, cadono le barriere degli orari d'ufficio.

È interessante notare che, però, non sempre questo accade per le richieste esplicite da parte di capi e collaboratori; spesso a spingere all'iper-efficienza è anche l'ansia di non essere abbastanza e il desiderio di mostrarsi capaci e produttivi come, e forse più che in ufficio.

Tutto questo porta stress e, alla lunga, anche diminuzione della produttività.

 

Le complicazioni relazionali: comunicazione e senso di abbandono

Lo smart working risulta stressante anche dal punto di vista relazionale: riguardo ai colleghi, nella maggior parte dei casi la distanza rende più difficoltose le comunicazioni. Non ci sono più le chiacchierate informali alla macchinetta del caffè, e gli incontri avvengono tramite videoconferenze via Zoom o Skype, che però risultano faticose per il fatto che ci siano più persone contemporaneamente presenti nello schermo e che sia possibile vedere solo il volto, e non il resto del corpo.

Si devono gestire più stimoli, mantenendo l'attenzione parziale continua tipica del multitasking, che affatica il nostro cervello senza offrire risultati significativi; in più, si perde gran parte della comunicazione non verbale: non sempre si riescono a decifrare le espressioni del viso degli interlocutori e la loro gestualità e il tentativo di farlo rende stancanti i momenti di incontro virtuale.

Un rischio anche più sostanziale, collegato alla sensazione di isolamento, è quello di sentirsi abbandonati dall'organizzazione: il bisogno di appartenenza e di riconoscimento che nei casi migliori l'organizzazione riesce a trasmettere ai suoi membri, in questo caso può facilmente risultare frustrato, con una diminuzione del livello di engagement e della motivazione.

 

Le difficoltà psicologiche della pandemia

Bisogna considerare che in questo momento le risorse che in situazioni normali potrebbero permettere di tollerare lo stress lavorativo possono non essere disponibili perché lo smart working della Fase 1 si colloca in un momento in cui molte ansie sono legate alla paura del contagio, che può portare panico, ansia generalizzata, attenzione eccessiva ai sintomi corporei, comportamenti compulsivi e irrazionali.

La convivenza forzata porta a volte al deflagrare di conflitti di coppia finora neutralizzati ricorrendo a distrazioni esterne e dosando la vicinanza; anche la clausura di figli adolescenti o giovani adulti può portare forti tensioni in famiglia. 

In chi è single, l’isolamento può indurre riflessioni che prima non trovavano spazio in giornate oberate di impegni. Per chi è abituato ad una vita passata altrove, tra lavoro e distrazione, rimanere da soli con se stessi può portare a sentimenti di angoscia, di vuoto e a porsi questioni esistenziali mai affrontate prima.

Come ha fatto notare Umberto Galimberti, psicologo e filosofo, non eravamo preparati all'irrompere di tanta negatività nella nostra società, costantemente tesa a negare e rimuovere il dolore, coltivando l'illusione di poter controllare tutto.

La pandemia ci ha fatto scoprire che in certi momenti dobbiamo rassegnarci al fatto di non poter controllare proprio niente, mettendoci davanti alla nostra fragilità.

È una situazione profondamente frustrante anche perché ci fa scontrare coi limiti della nostra libertà individuale, e contro ogni narcisismo ci ricorda che siamo strettamente interconnessi con gli altri esseri umani, anche con i più lontani da noi. 

Un discorso a parte va fatto per chi ha o ha avuto parenti o amici colpiti dal Coronavirus: in questo caso di possono essere vissuti di angoscia, legati anche alle scarse conoscenze mediche sul virus. 

Chi è stato colpito da un lutto (non solo legato al Coronavirus) non può cominciare a elaborarlo attraverso il rito del funerale, come avviene normalmente.

Questo porterà a conseguenze a lungo termine sulla salute psichica; lo stesso vale per chi ha sofferto in prima persona di Covid 19 ed è entrato in contatto diretto con il virus, come i malati ospedalizzati, i medici e gli infermieri in prima linea. in questo caso c’è da aspettarsi una sintomatologia in tutto e per tutto simile a quello dello Stress Post traumatico (PSTD) che colpisce i soldati che tornano dalla guerra o chi ha subito traumi che l’hanno posto nella condizione di poter morire in modo improvviso, senza poter fare nulla per cambiare la situazione.

 

I risultati sulla salute psicologica del lavoratore

Questa situazione ha portato a emergere sintomi diversi: ansia, attacchi di panico e depressione. Si sono molto diffusi i disturbi del sonno, anche tra chi non ne soffriva in precedenza. Per molti soggetti, il sonno è stato popolato da sogni diventati più frequenti e più vividi: la modificazione dell’attività onirica, collegata al nostro inconscio, è una prova ulteriore di quanto la pandemia e il lockdown ci abbiano toccati in profondità.

Considerando più in particolare la sfera lavorativa, si sono fatti sentire affaticamento, difficoltà di concentrazione, stress, burnout. Nei sintomi collegati allo stress hanno avuto un ruolo importante anche le modalità di comunicazione più diffuse in questo periodo, videochiamate e videoconferenze.

Non ci sono più le chiacchierate informali alla macchinetta del caffè, ma gli incontri tramite Zoom o Skype risultano decisamente stressanti per il fatto che ci siano più persone contemporaneamente presenti nello schermo e che sia possibile vedere solo il volto, e non il resto del corpo. Si perde la gestualità degli interlocutori, non sempre si riescono a decifrare le espressioni del loro viso e la comunicazione non verbale, che ha una parte importante nella trasmissione di significati, va quasi del tutto persa.

Mantenere l'attenzione parziale continua tipica del multitasking affatica il nostro cervello senza offrire risultati significativi in cambio.

Un rischio anche più sostanziale è legato alla sensazione di isolamento, è quello di sentirsi abbandonati dall'organizzazione: il bisogno di appartenenza e di riconoscimento che nei casi migliori l'organizzazione riesce a trasmettere ai suoi membri in questo caso può facilmente risultare frustrato, con una diminuzione del livello di engagement e della motivazione.

Naturalmente, il particolare momento che stiamo vivendo ha un'eco diversa in ciascuno di noi a seconda di un'infinità di fattori, sia contingenti, sia collegati ai tratti stabili di personalità o all'assetto psicologico.

La preoccupazione per il possibile contagio e le difficoltà dell'isolamento possono aggravare i sintomi di chi soffre di depressione o di ansia, per esempio. Lo stesso vale per gli ipocondriaci, in un momento in cui tutti diventiamo più attenti ai nostri sintomi corporei e tendiamo a preoccuparci più del solito anche per i malesseri più lievi.

Chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo, al contrario, può sentirsi meno a disagio per i propri rituali contro possibili contaminazioni in una situazione nella quale siamo tutti inclini a lavarci ripetutamente per la presenza di un rischio reale.

Anche chi ha difficoltà a vivere serenamente le relazioni perché soffre di ansia sociale o ha un disturbo di personalità schizoide o schizotipico, può trovare giovamento dall'isolamento imposto dalla pandemia.
In questi casi è il ritorno alla normalità a configurarsi come un momento critico.  

 

Che cosa cambia nella Fase 2

Durante la Fase 1 la situazione è stata da subito molto chiara: si trattava di una fase destinata a concludersi, nella quale non si poteva fare praticamente niente, in attesa che le cose cambiassero.

La Fase 2, nelle aspettative dei più, doveva essere un ritorno alla normalità, ma la pandemia non è ancora passata, e quindi permangono l'obbligo di mascherina e distanziamento sociale, e alcune limitazioni alla nostra libertà. Peggiora le cose il fatto di non avere idea di quel che succederà in futuro: non sappiamo se il virus tornerà, se si troverà un vaccino o saremo costretti a conviverci.

D'altra parte, si chiede a tutti di tornare a uscire, di frequentare i negozi e i locali di nuovo aperti, e, in alcuni casi, anche di tornare a lavorare.

Con l’inizio della Fase 2 si assiste a un altro fenomeno: il ritorno alla normalità porta con sé difficoltà legate a un nuovo cambiamento delle abitudini, più profonde per chi aveva trovato un proprio equilibrio nel lockdown. È così che dopo essersi abituati a fatica alla clausura forzata della Fase 1, molti guardano al ritorno alla normalità con sentimenti di ambivalenza. Per alcuni c'è una vera e propria paura di uscire dalla propria casa, percepita come l'unico spazio davvero sicuro, altri sono preoccupati di tornare in ufficio tra i colleghi, ai quali si sono disabituati. Chi è riuscito a ritrovare ritmi lontani dalla frenesia e modellati sui propri bisogni non desidera tornare indietro.

Naturalmente, anche in questo caso, molto dipende dalla situazione personale: c’è anche chi è contento di ricominciare a uscire per riprendere le proprie attività e chi non vede l’ora di farlo perché le condizioni sperimentate durante il lockdown sono state particolarmente dure. 

In questa seconda fase diversi studi evidenziano un aumento di casi di depressione e ansia e un peggioramento dei soggetti che già ne soffrivano; inoltre, come già anticipato, possono emergere sintomi importanti, che difficilmente si risolveranno rapidamente, tra chi ha incontrato da vicino il Coronavirus.

 

Smart working e benessere psicologico nella Fase 2

Nella Fase 2 la politica delle aziende riguardo i dipendenti riflette la profonda incertezza sull’andamento del virus: molte aziende hanno scelto di continuare con lo smart working fino all’autunno e oltre.

Nella Pubblica Amministrazione si prevede tra il 30/40% dei dipendenti in smart working.

Il benessere psicologico dei dipendenti, però, continua a essere messo a dura prova: da un recente sondaggio condotto da Linkedin sul benessere psicologico dei lavoratori in smart working, il 46% dice di sentirsi più stressato dal lavoro rispetto a prima, il 48% di lavorare più ore da casa che in ufficio e il 18% ha riscontrato un impatto negativo sulla propria salute mentale. Si aggiunge la preoccupazione di perdere il lavoro (16%), che aggiunge stress e aumenta il rischio di burn out. Anche la mancanza di concentrazione (26%) e i disturbi del sonno (27%) sono in aumento.

In questa fase, inoltre, molte aziende concedono ai dipendenti la possibilità di decidere se rientrare in ufficio o continuare a lavorare in smart working.

È così che alcuni rimangono a casa, mentre altri rientrano al lavoro e si creano situazioni diverse che possono alimentare vissuti di esclusione e abbandono.

Il senso di isolamento che può interessare chi rimane a casa può portare a un reale calo della produttività e della motivazione. 

A questo proposito, merita un’attenzione particolare la situazione delle donne. Lo smart working rischia di essere una «libertà a doppio taglio» per le donne, che in questa fase rimangono a casa, con la possibilità di occuparsi dei figli, mentre i colleghi uomini possono rientrare in ufficio con maggior facilità.

Con l’attuale gestione del lavoro da remoto, il rischio è che le donne finiscano per essere relegate a uno smart working che in realtà è un telelavoro a scarso valore aggiunto, rimanendo ai margini del mercato del lavoro, con ruoli subordinati e scarse possibilità di carriera.

Se questa tendenza si affermerà, potrebbero esserci conseguenze importanti sul benessere psicologico delle donne. 

 

Come salvare smart working e benessere psicologico dei dipendenti 

Lo smart working è sicuramente una grande risorsa, a patto che significhi davvero lavorare in modo «smart», e non semplicemente lavorare da casa con le stesse logiche del lavoro in ufficio, accumulando ansia, stress, frustrazione e insoddisfazione.

Dopo l’esperienza dello smart working «d’urgenza» durante il lockdown, è necessario ripensare lo smart working a partire dai vertici aziendali, che devono modificare radicalmente l’organizzazione in un’ottica di lavoro per obiettivi, lontana dalle logiche di controllo e di coordinamento ossessivo che pregiudicano inevitabilmente il benessere psicologico dei lavoratori in smart working e la loro produttività.

Quando questo risulti difficile, sarà possibile chiedere una consulenza esterna che permetta di metabolizzare e gestire il cambiamento.

 

Nella definizione di un nuovo paradigma di smart working, è fondamentale anche che  l’organizzazione ascolti il lavoratore, per evitare che il suo disagio si traduca in mancanza di motivazione, di engagement e di attaccamento all’azienda.

Anche in questo caso è possibile valersi di un professionista esterno; una soluzione particolarmente efficace è quella dello sportello psicologico per i dipendenti, offerto a chi desideri approfittarne.

Tramite colloqui psicologici online, lo sportello psicologico per i dipendenti permette di offrire un aiuto concreto al lavoratore nella gestione delle emozioni, nella gestione della quotidianità con interventi psicoeducativi volti a migliorare la gestione pratica del lavoro e il suo «incastro» con la vita familiare o domestica, nella comunicazione con l’azienda, con interventi tesi a migliorare la mentalizzazione e la comunicazione con colleghi e capi.

Sara Pagani