I costi della complessità

Da ormai un decennio le imprese stanno affrontando richieste di mercato sempre più orientate verso la realizzazione di prodotti customizzati, fatti su misura, che mano a mano hanno interessato e coinvolto anche settori che fino a quel momento erano abituati a ragionare su logiche di produzione di massa e standardizzazione, con una forte rigidità nei processi produttivi.

Queste imprese erano identificate come M.T.S., ovvero Make To Stock, con una produzione organizzata totalmente in ottica push, ed avente come cliente finale il proprio magazzino di prodotti finiti, basandosi su previsioni di mercato di medio termine. La necessità di “spingere” la produzione senza la conoscenza, o in alcuni casi addirittura l’esistenza, del cliente finale era data dai ristretti tempi di attesa del mercato, che non avrebbero consentito la produzione solamente una volta ricevuto l’ordine.

La richiesta di personalizzazione anche di questi articoli, definibili come “commodities”, ha portato nel 1986 Stan Davis a coniare il termine “Mass customization”, ovvero la coniugazione della gestione aziendale basata su produzioni di massa, con il soddisfacimento di bisogni individuali dei clienti tramite la differenziazione dell’offerta, di fatto coniugando anche le due strategie di base più volte citate da Michael Porter, la leadership di costo e la differenziazione, da lui ritenute come inconciliabili.

La sfida era quindi di offrire prodotti differenziati a prezzi contenuti, ovvero in linea con la media di mercato, lavorando sull’efficienza interna produttiva per ridurre i costi, controbilanciando l’inevitabile aumento degli stessi dovuto alla customizzazione. Le imprese avrebbero dovuto cambiare le logiche produttive, spostandole da M.T.S. almeno a A.T.O., ovvero Assembly To Order, metodologia dove iniziano a convivere le ottiche push e pull di produzione.

La parte “spinta”, che segue le stesse logiche delle aziende M.T.S. si ferma però al magazzino dei semilavorati, che rappresentano pertanto il polmone di stoccaggio, e dal quale i vari componenti vengono prelevati ed assemblati (finiti) solamente in presenza di uno specifico ordine del cliente finale, ovvero in filosofia pull. La personalizzazione del prodotto finito si genera dai diversi possibili assemblaggi dei componenti semilavorati, che devono pertanto essere progettati e realizzati seguendo concetti di architettura modulare.

Uno dei settori precursori in questo campo, così come in tante altre innovazioni e cambiamenti, è stato quello dell’automotive, dove i principali produttori si sono ben presto resi conto della necessità di disporre di piattaforme comuni di partenza per arrivare, combinando poi una serie di accessori e componenti, a modelli finali completamente diversi per allestimento, tipo di motorizzazione, ecc….

Essendo il costo di ricerca e sviluppo quello maggiormente rilevante, la condivisione ha rapidamente varcato i confini delle singole aziende, portando alla realizzazione congiunta di componenti essenziali quali pianali, motori ecc… tramite progetti in pool tra diversi player del settore, che hanno dimostrato voglia di collaborare tra loro e di fare squadra per affrontare nuove sfide, che potrebbero avvantaggiare ulteriormente le imprese, portandole in un modello produttivo M.T.O. ovvero Make To Order, dove tutta la produzione, e non solamente le fasi finali, viene gestita in ottica pull, partendo da specifiche esigenze espresse dal mercato, lasciando la gestione push solamente nelle fasi di progettazione, vero fulcro e cardine di questa filosofia produttiva, e di acquisto dei materiali, che a questo punto dovranno essere il più possibile condivisi e comuni tra i prodotti da realizzare.

E’ chiaro che prodotti realizzati con modalità A.T.O. o M.T.O. non rappresenteranno quasi mai per il cliente finale la soluzione tecnica perfettamente customizzata ed ottimale in assoluto, caratteristiche ottenibili solamente tramite produzioni su commessa pura, ovvero le E.T.O., Engineering To Order, dove ogni fase, inclusa la progettazione iniziale, è “tirata” dallo specifico ordine del singolo cliente, con una differenziazione totale.

L’offerta di chi produce A.T.O. o M.T.O. vuole essere un ottimo relativo, ovvero la migliore soluzione possibile in grado di avvicinarsi alle aspettative ed alle richieste del cliente, in relazione al vincolo rappresentato dal numero di output derivanti dalle possibili combinazioni dei diversi componenti.

Esiste però un altro importante passaggio legato ai processi di Mass customization, legato alla costificazione dei prodotti, che tradizionalmente avviene per le PMI italiane attraverso l’applicazione dei metodi del Direct e del Full Costing, il primo maggiormente idoneo per l’individuazione di linee di prodotto, stabilimenti, divisioni o anche singoli articoli con particolare redditività, il secondo utilizzato soprattutto per il “pricing”, includendo nel costo del prodotto anche una quota parte dei costi indiretti, attribuita in modo soggettivo attraverso uno o più driver.

L’applicazione di queste metodologie, basate sull’assunto che sono i prodotti che generano i costi, è da contestualizzare in un’epoca dove il miglioramento delle performances era soprattutto basata sulla riduzione dei costi diretti, ed in particolare la manodopera, aumentandone l’efficienza e introducendo forme di automazione sempre più spinte.

Il cliente e la capacità di rispondere esattamente alle sue richieste, la qualità, ovvero le caratteristiche tecniche e merceologiche della gamma di articoli offerta sul mercato ed il servizio post vendita, erano obiettivi secondari da perseguire, in quanto non legati, almeno dal punto di vista economico, al costo interno di produzione e, di conseguenza, al prezzo di vendita.

La necessità di affiancare a queste configurazioni di costo altre metodologie, maggiormente innovative e rappresentative di una realtà che nel frattempo era mutata, le imprese hanno cominciato ad avvertirla sensibilmente quando una serie di costi indiretti, quali ad esempio quelli legati al marketing, alla ricerca e sviluppo, agli investimenti tecnologici in infrastrutture, sono risultati via via sempre più rilevanti, e di conseguenza la loro semplice attribuzione ai prodotti realizzati tramite l’applicazione di un driver è divenuta problematica, e quindi oggetto di particolare attenzione.

Si è quindi compreso che esistono nei sistemi produttivi aziendali due tipi diversi di complessità. La prima, quella tecnica, che implica il possesso di particolari abilità nelle fasi di progettazione, produzione, assemblaggio, collaudo, era ed è rimasta patrimonio dell’area aziendale delle Operations, con il compito di cercare, nei limiti del possibile, di rendere il processo il più fluido e lineare possibile, diffondendo tra le risorse coinvolte le competenze necessarie, stimolando il lavoro di gruppo per il miglioramento continuo ed il problem solving.

La seconda complessità, che invece ricade nell’ambito gestionale, si manifesta in modo indipendente e svincolato dalla prima, con la quale non ha relazioni dirette, e deriva dal numero di attività, dirette ed indirette, necessarie per completare la realizzazione di un determinato prodotto. Attribuire, come detto, i costi indiretti della complessità gestionale a tutti gli articoli, usando un driver parametrico oggettivo, e quindi misurabile, rappresenta quindi una fortissima semplificazione, e come tale deviazione e distorsione, dalla realtà, dove i prodotti gestionalmente semplici, ovvero che necessitano di un minore supporto di attività non produttive, sono quelli che generano i maggiori profitti e che permettono di sostenere e coprire i costi della complessità relativi ai prodotti che invece ne generano ed assorbono maggiori volumi.

E’ assodato, ed anche qui il settore automotive, ed in particolare Toyota ha fatto da apripista in questo campo, che ogni ampliamento della gamma dei prodotti offerti aumenta contemporaneamente anche i costi della complessità, spesso in misura più che proporzionale, per cui occorre prestare la massima attenzione in termini di costi / benefici prima di decidere di “mettere a catalogo” nuovi prodotti per generare incremento di fatturato.

Il grande salto culturale per la gestione delle complessità e dei costi correlati dovrebbe portare ad una applicazione del metodo A.B.C., ovvero Activity Based Costing, dove i costi non riconducibili direttamente ai prodotti non vengono attribuiti, come nella metodologia Full Costing, in base a driver che non tengono conto per l’appunto della complessità gestionale, ma di attività svolte, e di come tali attività, che diventano le vere generatrici di costo, vengono assorbite dai diversi prodotti.

Così facendo, si eviterebbero errori molto comuni quali l’attribuzione di costi indiretti ai prodotti in relazione a driver come fatturato o margine, scaricando di fatto la quota maggiore sugli articoli a maggior volume di ricavi e /o a maggiore redditività, ovvero quelli che, secondo la notissima matrice del Boston Consulting Group, rappresentando per le imprese i prodotti “Stars” e “Cash Cows”, senza tener conto del grado di difficoltà che l’impresa deve affrontare per la loro realizzazione.

Utilizzando invece l’attribuzione dei costi in base all’assorbimento delle attività indirette, svincolandola da parametri semplici ma di mono dimensione economica, le imprese possono avere una diversa visione di quanto costi realmente ogni prodotto offerto, potendo quindi fare migliori valutazioni dal punto di vista commerciale e produttivo.