La dolce vita
Ma lo smart worker, che fa?

Per comprendere il fenomeno dello smart working, la prima cosa da fare è provare a definirlo e inquadrarlo.

Per questo motivo, proveremo a mettere in luce gli aspetti più significativi dello smart working pre emergenza Covid-19: in quali aziende era maggiormente diffuso e da chi veniva utilizzato prevalentemente questo strumento?

Come vedremo, i dati presentano diverse incongruenze che ci sembra importante mettere in luce. In chiusura dell’articolo proporremo una chiave di lettura che ricompone tali contraddizioni. 

Dove troviamo gli smart worker?

La maggior parte degli smart worker lavora in grandi organizzazioni, spesso multinazionali Molte di queste aziende hanno attivato progetti già prima che lo smart working venisse normato anche in Italia iniziando in genere dalle funzioni di staff per estendersi successivamente alle funzioni di line.

In TIM, ad esempio, sono partiti nel 2016 con una sperimentazione su un “piccolo gruppo” di 9.000 persone, pari a circa il 20% della popolazione aziendale, coinvolgendo inizialmente gli impiegati degli staff, per arrivare fino a parte del personale che lavora per turni per un totale di circa 21.000 lavoratori.

Anche Mediaset ha seguito un percorso analogo e prima dell’emergenza il 34% delle persone utilizzava lo smart working.

L’emergenza Covid-19 ha spinto molte organizzazioni a sperimentare il lavoro da casa ben oltre quello che immaginavano possibile, con dei risultati che sono stati in alcuni casi molto soddisfacenti e che forniscono spunti estremamente interessanti riguardo alla possibilità di estendere lo smart working anche ad altre figure professionali.

Ad esempio, Texa, che produce diagnostica per veicoli ha spostato tutta la ricerca e sviluppo in smart working.

Con successo.

Anche Maeg, operativa nel settore delle costruzioni, sta gestendo in smart working tutte le attività di progettazione, in modo da poter essere operativi il primo giorno di riapertura delle attività.

Pininfarina addirittura utilizza il lavoro agile per tutta la progettazione del design e dell’engineering e, grazie alla realtà aumentata, ha la possibilità di svolgere da remoto persino la fase di test della galleria del vento.

Ed è proprio l’associazione con l’IoT che sembra essere una delle chiavi del successo dell’estensione del lavoro agile anche a funzioni di tipo più operativo, perché consente non solo di avere accesso ai dati che si potrebbero reperire in ufficio, ma anche di generare informazioni disponibili sul territorio e di organizzarle in modo nuovo.  

Che ruolo ricopre lo smart working nella propria organizzazione?

Le informazioni relative all’inquadramento degli smart worker sono molto generiche e sembrano mettere in luce alcune incongruenze.

Secondo una ricerca dell’Agenzia Mobilità Ambiente e Territorio del 2018, lo smart working non è diffuso fra gli operai, mentre il 49% del campione selezionato aveva la qualifica di Impiegato, il 47% Quadro e il 2% Dirigente.

Considerando le percentuali di Dirigenti, Quadri e Impiegati, sembra che la categoria presso la quale il lavoro agile è maggiormente diffuso sia quella dei Quadri e che anche i Dirigenti ne facciano un uso molto intensivo.

Rispetto a questa ipotesi, pare però ragionevole sollevare qualche perplessità.

A parte il fatto che la reticenza a cui accennavo riguardo al livello delle persone che utilizzano lo smart working lascia supporre che il dato non sia entusiasmante da comunicare (e come diceva un noto politico, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina), se prendiamo in esame cosa è successo in molte organizzazioni all’inizio dell’emergenza, notiamo che tutto il personale è andato in smart working, tranne i Dirigenti. E in molti casi, in queste organizzazioni tutti hanno fatto più fatica a lavorare da casa.

Proprio per questo motivo, il Segretario Generale della Regione Autonoma Trentino Alto Adige Michael Mayr, appena è stato emanato il decreto ha deciso di spostare il proprio ufficio nella sua mansarda, dichiarando che i capi devono dare il buon esempio, dimostrare che è possibile e anche comprendere le difficoltà operative che si incontrano nello smart working per poter facilitare l’attivazione di risposte organizzative.

E in Regione Trentino Alto Adige gli uffici sono vuoti e i servizi continuano.

Guardando i casi aziendali, sembra proprio che l’atteggiamento dei capi sia determinante nel successo dello smart working: quando i capi ci credono, lavorare da casa è ugualmente - se non più - efficace rispetto allo stare a casa.

È valida anche la relazione inversa?

Cioè: nelle organizzazioni nelle quali i processi facilitano il lavoro da casa, anche i Dirigenti sono più propensi a sostenerlo?

Probabilmente sì.

Ma l’esperienza di questo periodo ci sta dimostrando che, quando ci si lancia e si prova a lavorare da casa, si ottengono risultati anche dove nessuno l’avrebbe sospettato; quindi i Dirigenti possono influenzare in modo molto positivo l’adozione di questa modalità di lavoro.

L’esperienza di YourGroup, che fornisce fractionary manager, cioè temporary manager che operano contemporaneamente su più aziende, alternando presenza e lavoro a distanza, sta dando in effetti risultati molto interessanti anche in questo senso. 

Che persone sono gli smart worker?

Anche su sesso e età ci sono dati discordanti.

A partire dal sesso: Eurostat ci dice che gli smart worker sono circa equamente distribuiti fra uomini e donne, ma quando le aziende rilasciano i dati, il panorama sembra molto diverso.

Allianz, ad esempio, che è un eccellenza nel lavoro agile, dichiara che circa il 70% di chi utilizza lo smart working è donna. E analoghe dichiarazioni arrivano dal MEF, dove la maggior parte dei lavoratori agili è donna e con figli fra i 10 e i 17 anni.

Passando all’altro parametro, l’età del lavoratore agile solleva ulteriori dubbi: il picco di utilizzo risulta infatti essere tra i 45 e i 55 anni.

Questo dato stride fortemente con le ricerche sui Millennials (le persone vate fra il 1980 e il 1999), secondo le quali questo gruppo di lavoratori, che costituisce ormai la maggioranza relativa degli attivi (circa 35% degli occupati), nel cercare lavoro dà moltissima attenzione alla possibilità di avere tempi per le vacanze e flessibilità di orario.

Mentre le generazioni precedenti sono cresciute nell’idea che alla carriera vada sacrificato tutto (famiglia-amici-vacanze-teatro-sport-e ogni momento di gioia), i Millennials vogliono tutto: vogliono successo e soddisfazioni nel lavoro, ma anche gioia nella loro vita personale.

E sono disposti a dare un impegno elevatissimo alle organizzazioni che consentono loro di organizzarsi in modo da poterlo ottenere.

Ci aspetteremmo allora un ricorso molto spinto allo smart working dai Millennials, utilizzo che invece non troviamo nei numeri.

Torneremo su questi punti dopo aver raccolto qualche considerazione riguardo al modo in cui il lavoratore agile è visto in azienda. 

Cosa pensano i colleghi  e il capo dello smart worker?

Nella maggior parte delle organizzazioni, i colleghi pensano che il lavoro agile sia uno strumento molto utile per i caregiver.

In sostanza, chi non utilizza il lavoro agile associa lo smart working a una forma di welfare aziendale utile per chi in famiglia ha un importante ruolo di accudimento di bambini e anziani.

Il che frequentemente si porta dietro un sentimento ambivalente di comprensione e invidia, del quale possiamo vedere i risultati anche nelle statistiche: i lavoratori dichiarano che da quando lavorano da casa il loro rapporto con i colleghi è molto positivo, ma poi quasi un terzo di loro dichiara di sentirsi isolato.

Anche i capi hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti dello smart worker.

Da un lato dichiarano che il livello di motivazione e responsabilizzazione è aumentato tantissimo e che le persone sono molto più focalizzate sul raggiungimento degli obiettivi.

Generali, ad esempio, dichiara una riduzione del tasso di assenteismo che varia dal 20 al 30% a seconda dei settori ed un incremento dell’engagement che è arrivato all’80%.

Poi però quando sono chiamati ad elencare le criticità del lavoro agile, i capi dichiarano che non è tanto facile gestire in modo tempestivo le urgenze e pianificare le attività con gli smart worker.

E infatti, i dati dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ci dicono che anche nelle grandi aziende, dove ci sono difficoltà nell’introduzione dello smart working, queste sono dovute nel 50% dei casi a resistenze da parte del capo.

 

Quali smart worker per quale smart working?

Da quello che abbiamo visto fin ora, sembra quindi che ci siano alcuni punti poco chiari:

  • gli smart worker sono cinquantenni o Millennials?
  •  prevalentemente impiegati o manager?
  •  utilizzano il lavoro agile per poter dare assistenza alla propria famiglia o per godersi la vita?

In altre parole: lo smart working è vissuto come un altro strumento di welfare aziendale o è una diversa concezione del lavoro?

La risposta è: tutte e due.

Il termine smart working è unico, ma le realtà sono due.

Da un lato abbiamo uno strumento che - perdonate il termine - è, di fatto, un telelavoro aggiornato: sostituito il nome, cambiato look, resi più flessibili ed adatti ai tempi alcuni vincoli, ma la matrice è quella.

Ed è lo smart working che viene utilizzato da chi ha compiti di cura ed è chiaramente diffuso più nelle grandi aziende che altrove, anche se in realtà i dati dimostrano che l’impatto sulla produttività sarebbe vantaggioso anche per le realtà più piccole.

Non è ufficiale, ma è abbastanza chiaro che in questo caso la persona sta (almeno temporaneamente) scegliendo la famiglia rispetto al lavoro e quindi pone una forte ipoteca sulle proprie prospettive di carriera.

La legge descrive e tutela molto bene questo tipo di smart working.

Il rischio di questo lavoratore agile è di sentirsi isolato e perdere via via il contatto e l’identificazione con l’organizzazione, motivo per cui è importante che l’organizzazione gestisca lo smart working in modo da favorire l’integrazione e supportare il lavoratore nei cali di motivazione.

L’altro tipo di smart working potrebbe essere definito “lavoro fluido” ed è quello che piace ai Millennials.

Può essere attivato in ogni azienda, anche perché non ha bisogno di grandi strutture, ma di una cultura di valorizzazione del contributo di tutti (il che, mi rendo conto, non è così scontato, ma non richiede impegnative analisi dei flussi lavorativi e rigidità nei processi). Le persone che lo utilizzano hanno l’approccio al lavoro tipico degli imprenditori anche quando sono impiegati, quindi questo smart working è addirittura una carta in più per la carriera.

A patto che l’organizzazione riesca a sostenere queste persone, perché il rischio di burn out è abbastanza significativo, considerando la quantità di impegni che questi lavoratori si assumono dentro e fuori dall’organizzazione.

Questo tipo di lavoro è talmente fluido, che la normativa riesce a fotografarlo solo in parte.

 

Il doppio taglio

La considerazione conclusiva, con la quale vi rimandiamo alle prossime puntate è che esistono due tagli.

Il primo, che abbiamo appena analizzato, consiste nel fatto che lo smart worker sembra uno, ma in realtà sono due tipologie di persone molto diverse.

Questo significa che in termini di strutturazione delle attività di lavoro agile, le organizzazioni devono avere in mente due modelli e fornire risposte a entrambi. Soluzioni che, verosimilmente, dovranno essere differenziate nella maggior parte dei casi.

Il secondo taglio consiste nel fatto che in ognuna delle due forme, quando lavora da casa, lo smart worker lavora per obiettivi: non è misurato sul tempo di lavoro, ma su quello che produce in quel tempo.

Possiamo immaginare che questo valga solo nel giorno del lavoro da casa e che quando torna in ufficio, prevalga di nuovo la dimensione temporale del lavoro?

Chiaramente no.

E, andando oltre: possiamo immaginare che ci siano lavoratori che utilizzano il lavoro agile che lavorano per obiettivi e lavoratori che non utilizzano il lavoro agile che vengono invece misurati sul tempo che trascorrono in azienda?

La risposta non può che essere nuovamente negativa.

Il che significa che introdurre lo smart working porta un cambiamento (positivo) in tutta la nostra organizzazione.

Chiara Pollina